Ciao nonno Minguccio

Domenico Difonzo, detto Minguccio, uomo imprenditore ed amico ci ha lasciati questa notte di martedì 26 giugno, dopo aver lottato come un leone in una lunga malattia. Non si è mai arreso. Lo voglio ricordare con un intervista che mi concesse per il trimestrale della Banca di Credito Cooperativo di Marina di Ginosa qualche anno fa.

Ha cominciato a darsi da fare e a lavorare duro, fin da quando era bambino. La sua scuola è stata la strada e lo sterrato dei campi. Fin da ragazzo accompagnava le braccianti nelle varie masserie della zona offrendosi per i compiti più umili e faticosi.

Quella mattina del Maggio ’44, Domenico Difonzo era seduto come sempre dietro, sull’asse del traino, nei pressi di Lama Di Pozzo, con i piedi scalzi e i calzoni corti, le gambe forti sporgevano in fuori. Il caporale era diretto alla Masseria Pascale. Lui aveva solo 13 anni.

Era la fine della Guerra. I Tedeschi in ritirata disseminavano i campi di mine

Improvvisamente il ragazzo sbarrò gli occhi. Uno spettacolo terrificante gli si parò davanti. Nel punto in cui loro erano appena passati, uomini, cavalli e traini si trasformarono in un ammasso di carne sbrindellata, sangue, fumo e macerie.

Nove braccianti ginosini persero la vita in quella tragica esplosione.

Domenico cercò di raccontarlo alle donne. Nessuno gli credette. Lui era solo un bambino di tredici anni.

La mattina dopo, la tragica verità corse di bocca in bocca, nove giovani erano morti per colpa di quella maledetta mina. Nove vite stroncate da una guerra che i contadini non capivano, ma nella quale morivano.
Allora Domenico, che tutti chiamavano Minguccio, aveva ragione!
Lui non sapeva ancora come quell’episodio avrebbe cambiato la sua vita.
Aveva guardato la morte negli occhi, l’aveva affrontata e aveva vinto. Niente gli faceva più paura.
Forse fu in quel momento che decise di usare l’esplosivo per costruire, non più per distruggere.
Tutti avevano paura. Lui era cresciuto in fretta, tra la fame, i pochi soldi e i primi tiri di sigaretta.

A 15 anni decise che poteva guadagnare un bel po,’ facendo esplodere le cave di pietra.
Ora ha costruito un impero economico. A pochi metri da quella strage che lo segnò nel maggio del 44, sorgono i suoi capannoni dove fornisce tutti i materiali per l’edilizia e si è specializzato anche nella costruzione e commercializzazione dei paletti per issare i tendoni nei vigneti.
A 87 anni appena compiuti e festeggiati lo scorso luglio, non ha nessuna intenzione di mollare la presa.
Un delicatissimo intervento chirurgico ha rischiato di metterlo a tappeto. Ma lui non ha mollato. Si è rimesso in piedi ed è tornato in cantiere, sorreggendosi con un bastone canadese, dal quale comanda un’impresa di più di 50 dipendenti. Conosce tutti i suoi macchinari e ogni processo di produzione… le nuove macchine le chiama quasi per nome.

È sempre lui, Minguccio Difonzo, Cavaliere del lavoro, ad avere l’ultima parola.

Una vita dedicata al lavoro, alla sua Impresa. Un’esistenza, la sua, trascorsa con le maniche ben rimboccate, macinando lavoro e sogni a testa bassa, ma riuscendo sempre a guardare in alto, con l’indole speciale dei grandi.

La forza e l’energia che ci trasmette Domenico Difonzo, per tutti Minguccio, dal momento in cui inizia a raccontarsi, ci rappresenta la consacrazione di un uomo all’impegno creativo per il lavoro e per ogni opportunità della sua crescita, la devozione per la sua Impresa. Un impegno iniziato in età ancora adolescenziale, perché in tempi come quelli dei suoi quattordici anni, appena successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, non c’era proprio il tempo per l’adolescenza.

L’Italia del ’45 era un Paese in rovina, stanco e svigorito nel morale e nella speranza; ogni sforzo per poter risollevare il Paese poteva essere facile preda dello sconforto. L’incontro con Domenico Difonzo ci ha, tuttavia, restituito l’immagine straordinaria di quegli uomini di grande valore e tenacia che seppero, in quegli anni tremendi, prendere le redini non solo di un’economia annientata, di un lavoro difficile da riorganizzare, ma soprattutto di un sentimento sociale da risanare e rincuorare.

Grandi e piccoli lavoratori autonomi costituirono quella classe imprenditoriale che, nel trascorrere di un sorprendente lustro, riuscì a far letteralmente risorgere dalle macerie il Paese per poi rapidamente proiettarlo verso gli anni del suo boom economico.

<<All’inizio c’erano le cave che il Comune affittava in cambio di lavori di riparazione di strade ed infrastrutture. Così incominciò mio padre ed io lo seguii. Non c’erano mezzi per lo scavo, né autocarri per il trasporto. Tutto il lavoro si svolgeva a mano e la fatica si faceva sentire, eccome se si faceva sentire! La polvere nera era esplosivo a basso potenziale e l’operazione per piazzare le cariche poteva durare giorni>>. Domenico ci spiega i dettagli della composizione della polvere esplosiva, ci illustra e ci mima la lunga preparazione delle perforazioni e sistemazione delle cariche nella roccia, le procedure per farla saltare, la lunga combustione delle micce, con una passione che sembra non risentire degli anni… Eppure di anni ne sono passati da quando aiutava papà Francesco nell’attività di “cavamonte”, termine dell’epoca per indicare l’attività di spaccapietre nelle cave di inerti.

<<Poi i massi dovevano essere lavorati, frantumati, trasportati… Il pietrisco che se ne ricavava serviva per riprendere le costruzioni edili, mediante l’utilizzo di malte comuni. C’era tanto da ricostruire e né il lavoro né la volontà potevano mancare…>>

Non mancarono, come in tutti i periodi di crisi, neppure le opportunità. La prima giunse con un deposito di tritolo ed esplosivi bellici collocato presso il Consorzio Agrario. Era materiale pericoloso dal quale era preferibile girare alla larga, ma Domenico comprese le potenzialità di quello strumento in grado di accelerare ed aumentare considerevolmente la produzione e si offrì per sperimentarne le delicate procedure di utilizzo. La produzione, con l’utilizzo del tritolo, giunse presto a decuplicarsi con successo straordinario.

<<Mi feci avanti io per sperimentare il tritolo, il più giovane tra tutti. Ero convinto che sarebbe diventato uno strumento indispensabile>>.

Non solo gli edifici, pubblici e privati, necessitavano di interventi e di ricostruzioni. Anche le infrastrutture richiedevano lavori urgenti. Le strade della Lucania e della provincia di Taranto erano in quegli anni qua e là dissestate e versavano in un generale stato rovinoso. Spostarsi era un vero problema, perché oltre le enormi buche, le vie erano sterrate, senza asfaltatura, e con le piogge si riempivano di fango e spesso venivano interrotte da frane.

<<Potevano trovarsi buche profonde anche un metro. Acquistai i primi mezzi, il primo compressore d’aria, la prima macchina per frantumare le pietre. Poi il primo camion, la prima pala meccanica. Così le richieste di lavoro iniziarono ad aumentare su tutto il territorio. Nel ’58 l’iscrizione all’Albo delle Imprese e subito dopo fu possibile a partecipare alle prime gare d’appalto pubbliche. Le richieste di lavoro, dalla Calabria, dalla Campania e dal resto della Puglia, ma soprattutto dalla Basilicata ed in particolare la Provincia di Matera non mancavano mai, i soldi un po’ meno. Le strade venivano riparate con il pietrisco macinato e non erano ancora asfaltate. C’era ancora grande necessità di ripristini e manutenzioni stradali. Fu così che iniziai a pensare a ripristini stradali con conglomerato bituminoso. Le commesse pubbliche venivano pagate con notevoli ritardi; però si cercava sempre di compensare con le commesse private. I lavori di pavimentazione stradale impegnavano continuamente le squadre dei lavoratori dipendenti, anche con l’occupazione temporanea di personale locale, e l’azienda iniziava ad espandersi e potenziarsi con altri mezzi di sollevamento e trasporto. Il materiale (conglomerato bituminoso) veniva acquistato, ma presto i produttori iniziarono ad alzare i prezzi non appena l’aumento della nostra attività lavorativa gli sembrò evidente. Fu così che, con pur con enormi sacrifici…>>

Sono già gli anni settanta. Dopo aver potenziato il suo parco mezzi di scavo, sollevamento e trasporto, Domenico si lancia così nell’acquisto di un impianto per conglomerati bituminosi, uno tra i più all’avanguardia. Sono anni di investimenti e conseguenti difficoltà, di pugni e denti serrati, dove tutto sembra doversi rimettere in gioco per non dover sottostare ad alcuna subordinazione. L’impianto mostra notevoli problemi di sistemazione, calibratura e programmazione, sembrava tutto in salita.

<<Uno ad uno, i problemi furono risolti e riuscimmo così, con grandi sforzi e sacrifici ad essere finalmente autosufficienti producendo in proprio tutto il materiale per la sistemazione dei fondi stradali>>.

Nel 1974, Domenico Difonzo fonda la I.C.B. srl. Inizia così, su un suolo aziendale di pochi metri il continuo ampliamento di quello che inizialmente (ed anche oggi, per abitudine) viene chiamato “cantiere” ma che in realtà è un vero e proprio stabilimento produttivo organizzato che oggi misura un’area di circa 80.000 mq. Quindi, sempre fra difficoltà e con enorme sacrificio, nel 1982 amplia le proprie attività con la realizzazione di un impianto per la produzione di calcestruzzo e con l’acquisto di alcune autobetoniere.

La sua lungimiranza e la grinta naturale del carattere lo portano, nel 1987, ad avviare la produzione di manufatti in cemento normali (tubi, pozzetti, blocchi ecc) e, nel 1990, ad interessarsi alla tecnologia della precompressione. Inizia quindi la costruzione di un primo impianto per la produzione di manufatti in cemento armato precompresso (lastre, travetti per solai, paletti ecc..) e, visti i risultati lusinghieri, nel 1997, di un secondo impianto. La tenacia e anni di lavoro hanno creato, all’interno della I.C.B. srl, attività diversificate fra di loro che oggi consentono alla I.C.B. srl, ed ai suoi  dipendenti, di reggere il presente ed affrontare il futuro con relativa tranquillità. Domenico è tutt’oggi amministratore unico della I.C.B. srl con la stessa passione e con lo stesso amore per il lavoro che lo hanno sempre contraddistinto.

L’11 Dicembre 2014 , Domenico è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito dell’Ordine della Repubblica italiana.

Oggi la I.C.B. s.r.l. testimonia da oltre quarant’anni l’impegno imprenditoriale di Domenico Difonzo nel campo dei conglomerati bituminosi e dei lavori stradali eseguendo forniture e lavori sia per privati che per enti pubblici, e continua, ininterrotta, la sua attività di estrazione e lavorazione di materiali inerti provenienti dalle proprie cave. Seleziona e certifica i materiali destinati alla produzione dei propri calcestruzzi. Ma non è tutto. Sempre impegnata nella ricerca di continue nuove ed innovative soluzioni per indirizzare l’impresa verso attività di maggior interesse, la società ha da tempo intrapreso la realizzazione di una pavimentazione ecologica “Biostrasse”, rappresentando il primo caso in Puglia e il secondo in tutto il Sud.

Domenico si alza, si appoggia al bastone, eleva lo sguardo in alto, ci saluta con gli occhi e tira dritto. Le ultime sue parole, prima di congedarci da lui, sono state per i suoi operai, per come l’azienda abbia, nonostante i tempi e le crisi, garantito il loro lavoro di anno in anno. I suoi occhi penetranti sembrano brillare. Lo lasciamo con la chiara sensazione di salutare un vero cavallo di razza. Semplice, essenziale, schietto e determinato, ci è sembrato consapevole della strada percorsa ma i suoi occhi luminosi rendono manifesto il desiderio di voler inseguire ancora il futuro, di non arrendersi mai, di avere ancora in serbo molte sorprese. Tutto un mondo da costruire. 

Ciao nonno Minguccio, sono sicuro che tutto quello che hai seminato rimarrà nei cuori dei tuoi nipoti e di tutti coloro che ti hanno incontrato

Il tir sfonda il guardrail e precipita nel viadotto: un morto a Matera


MATERA – Un uomo di 49 anni, calabrese, è morto stamani, in un incidente stradale avvenuto, per cause in fase di accertamento, intorno alle ore 5.15, nei pressi della diga di San Giuliano, tra Miglionico e Matera
L’uomo era alla guida di un autoarticolato che, dopo aver sfondato il guardrail, è precipitato da un viadotto. Sul posto sono intervenuti 118, Carabinieri, Polizia stradale e Vigili del fuoco.

I volti di Ginosa, Vittorio Brunone, “Il barbiere”

Per tutti i ginosini, a qualunque latitudine e in qualunque pezzo di mondo si trovassero, lui, Vittorio Brunone era “Il Barbiere!” senza bisogno di ulteriori precisazioni o aggettivi.

Nato il 12 febbraio 1921, aveva cominciato a familiarizzare con i ferri del mestiere, sotto la guida attenta di suo padre, Vincenzo Brunone, fin dalla tenerissima età.

Il padre non gli faceva sconti. Il primo gradino per un apprendista barbiere, come mi raccontava nel corso di lunghe chiacchierate durante la mia infanzia e la mia adolescenza, è imparare a preparare la schiuma da barba, per poi insaponare dettagliatamente ogni cliente, seguendo alla perfezione le curve del viso di ciascuno.

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Il 14 luglio e la memoria che sbiadisce

Ci sono date che contengono in sè tutta la luce e la tenebra di quello che hanno rappresentato. La più emblematica di tutte queste, è sicuramente il 14 luglio 1789, che con la presa della Bastiglia, segnò lo scoppio della Rivoluzione francese, in un’afflato di libertà, rovinosamente annegato nel terrore, negli omicidi di massa e nel furore ideologico, di cui la purezza di Robespierre, divenne la nemesi più compiuta e terrificante.

Se una lezione dobbiamo trarla, da quegli eventi tragici, cosa che la sinistra Europea e mondiale non ha ancora fatto, è proprio quella di diffidare delle ideologie totalizzanti che portano inevitabilmente al loro contrario, come tutte le esperienze platoniche e neoplatoniche. Perché la verità, è un imperativo conoscitivo, non un assoluto speculativo da applicare ad ogni ambito della storia umana.

Non è un caso, che proprio per cancellare quel che di buono c’era negli assunti filosofici, non certo pragmatici, della Rivoluzione francese, che Hitler emanó le leggi di Norimberga proprio il 14 luglio 1933, a stigmatizzare come il nazismo volesse cancellare tutto quello che fino ad allora si era conquistato da un punto di vista dei diritti umani. La rivoluzione francese cominció con il sangue e finì nel sangue, tragico apologo, non certo epilogo, di tutti i drammatici tentativi dell’uomo di creare proprie palingenesi autonome, cadendo nel più profondo dei suoi buchi neri.

Oltre ogni consona riflessione, appare chiaro come l’unica rivoluzione realmente riuscita sia stata la quella americana, vissuta e interpretata prima di tutto un cambiamento individuale e intimamente Borghese. Ma questa è un’altra storia.

Un’analisi storiografica realmente compiuta dovrebbe annoverare nella Rivoluzione Francese gli eccidi di preti e suore, la Vandea e la ghigliottina.

Non ora, non ancora

Un giorno, sono andato a casa, convinto di poter finire il mio romanzo. Non avevo fatto i conti con la mia pigrizia mentale, che da anni mi attanaglia.
Devo anche neutralizzare la mia ansia inconscia, indotta dalla tetraparesi nei momenti di stress.
Benedetto riconoscimento vocale, mi è di grande aiuto, specie adesso che le mie mani si irrigidiscono sempre più e non mi rispondono come avrebbero fatto un tempo.
Non ci sono alternative alla regressione artrosica spastica di tutti e quattro gli arti.
Tuttavia per ora non sono disposto ad arrendermi. Se voglio continuare a lavorare e a non dare adito a critiche, dovute all’ignoranza di una situazione che non mi giustifica. Ma che a tratti appaiono malevole, interessate, se non becere, e venate di crassa superficialità. Devo assumermi tutta la responsabilità di quanto faccio, senza barricarmi dietro le difficoltà fisiche, che sono solo mie.
Non sono un gigante, non ho mai preteso di esserlo, ma né adesso, né mai, intendo darla vinta ai nani, che si arrampicano sui monti, cercando di toccare il cielo, senza aver neanche mai conosciuto le colline. E forse nemmeno le Murge. Quando ti accorgi che non c’è alternativa alla sofferenza, devi viverla al meglio possibile, cogliendo i lampi di felicità che la lotta e le piccole vittorie quotidiane ti danno. Michele Pacciana

IL SEGRETO DI KALED

Soggetto di Michele Pacciana 

Primavera 1252. Federico II di Svevia, ultimo Grande sovrano del Sacro Romano Impero è morto da 2 anni. 

Suo figlio Enzo è ancora prigioniero nelle torri di Bologna. Il padre non è riuscito a liberarlo, né col ferro e né con l’oro. 

Di giorno Enzo e trattato con tutti gli onori, che si devono a un principe di sangue reale.  Riceve visite e dignitari, di notte, invece, viene rimesso in catene. 

In una mattinata fredda e ventosa, si presenta alla torre, un cavaliere templare, ormai già avanti negli anni. Pretende di parlare da solo a solo con Re Enzo. Dall’accento sembra inglese. Dice di chiamarsi William di Hasherville. 

Re Enzo lo riconosce. Abbassa gli occhi per non insospettire gli armigeri e chiede di essere lasciato solo con l’ospite. 

Quando le guardie se ne vanno, Hasherville s’inchina a Re Enzo alla maniera templare insegna di vassallaggio. 

“Alzatevi, Sir William! Eravate uno degli uomini più fidati di mio padre  a Gerusalemme. Foste voi a salvarlo dall’attentato che gli avevano teso  Cavalieri giovanniti. Saladino avvertì vuoi Templari della dell’agguato. Senza il vostro intervento mio padre sarebbe sicuramente morto. 

Hasherville si si alza, si libera della corazza e trae furtivamente dalla clamide rossa, un grosso rotolo di pergamena. 

” Questo è il diario che l’imperatore mi affidò alla fine della crociata. L’ho conservato per anni, sottraendolo a mille insidie. Ora sono vecchio: è giusto che lo vediate e mi diciate cosa farne. 

Sarà la mia ultima missione. Sono al vostro servizio, Maestà. 

Re Enzo sembra interdetto. Non tradisce alcuna emozione. È un artista, un grande poeta della scuola siciliana, ma anche un uomo di Stato. Avvicina la pergamena al lume  e riconosce subito

la grafia dell’imperatore. Che sia nascosto lì il più grande segreto della cristianità? 

“Leggete,  intima a William con voce di comando. 

 L’inglese comincia. 

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Il mio primo soggetto cinematografico

IL CACCIATORE DI MICROBI

Soggetto liberamente ispirato alla vita di Albert Bruce  Sabin,  l’uomo che donò al mondo il vaccino antipolio, senza pretendere un dollaro.

di Michele Pacciana 

e

 Luca Lippolis

La storia inizia a Cincinnati in Ohio  nel 1966, dove il professor Albert Bruce Sabin aspetta un giornalista italiano per un’intervista.

L’Italia ha appena deciso di adottare il suo vaccino antipolio e un giovanissimo Enzo Biagi, si reca in America, all’ospedale di Cincinnati in Ohio per intervistare il professor Sabin, nel luogo in cui egli ha sempre vissuto e studiato.

L’intervista è il pretesto,  l’espediente letterario, peraltro realmente accaduto, per un flashback sulla vita di Sabin, partendo dal ghetto ebraico di Bialystok,  nella Polonia orientale, dove fin da bambino, il piccolo Sabin, che in realtà si chiama Abraham Saperstein , ha dovuto provare sulla sua pelle cosa significhi essere ebreo nella Polonia zarista.

Per sfuggire ai pogrom antiebraici  la famiglia cambia nome ed emigra gli Stati Uniti nel 1921.

Abraham adesso si chiama Albert Bruce Sabin, si stabiliscono nel New Jersey. Grazie all’aiuto di uno zio dentista, che lo vorrebbe nel  suo studio, Albert diventa uno studente modello e si laurea in  medicina. 

Nelle pause di studio, si imbatte in uno strano libro, che gli cambierà la vita. S’intitola “Il  cacciatore di microbi. Sabin decide di diventare microbiologo.

 Lo zio dentista gli toglie i fondi e lo caccia dal suo studio.

Il giovane medico vive il primo grande conflitto tra ragioni dell’Utile e pulsioni della coscienza. Segue le passioni del cuore e il destino gli aprirà una porta. 

Il professor Parks, suo docente all’università, che ne intuisce le capacità, lo propone per una borsa di studio. Il giovane Sabin può continuare le sue ricerche. 

Cerca i microbi in ogni angolo di strada, li studia in ogni momento della giornata. 

Attorno a sè vede morire migliaia di bambini per il morbo della poliomielite, altri rimarranno invalidi e storpi per tutta la vita. 

Decide di concentrare i suoi studi per sconfiggere il Morbo. 

Nel 1934, su indicazione di Parks, a soli 28 anni viene chiamato dal Presidente  americano Franklin Delano Roosevelt per studiare il suo caso di sospetta poliomelite, che lo tiene incatenato ad una sedia a rotelle. Tra  i due si svilupperà una grande amicizia. 

Con la lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Sabin interrompe le sue ricerche e si arruola nello staff medico dell’esercito americano.  Lui è ebreo, lui è americano Ora il suo dovere è quello di combattere i nazisti. Ha perso due nipotine nei campi di sterminio. 

Sbarca in Italia a Palermo e poi va a Berlino. Sente il richiamo della sua antica missione. Anche nella capitale tedesca, distrutta dai bombardamenti e dalla guerra, tanti bambini muoiono di poliomielite. È qui che gli arriva la sua prima illuminazione. La causa della poliomelite non è di ordine virale,  si forma nell’intestino. 

Tornato negli Stati Uniti Si getta a capofitto nei suoi studi e arriva a sperimentare due gocce, che si rivelano efficaci. Ma alcuni bambini muoiono durante la sperimentazione. Ancora una volta, Sabin deve lottare contro le ragioni della Scienza e quelle del denaro. Quasi tutta la classe medica gli e contraria.  Respira l’ostilità di tutte le grandi case farmaceutiche. È determinato, non lo hanno battuto i nazisti, non lo batteranno neanche le multinazionali del farmaco.

Anche il suo insegnante, il suo mentore il dottor Parks, gli dice che deve brevettare le sue scoperte. Il loro rapporto di amicizia filiale e di stima professionale rischia drammaticamente di incrinarsi.

Ma lui, decide di donare gratis gratuitamente  il suo vaccino. È un regalo che sente di dover fare a tutti i bambini del mondo. Un pegno d’amore alle sue due nipotine morte ad Auschwitz. Sabin è profondamente, laico, ma anche intimamente ebreo.   per lui, quella che sta portando avanti, è una Mitzvah, una missione, un imperativo morale. Il riscatto per non essere riuscito a salvare le sue nipotine dall’inferno della Shoah.

La sperimentazione procede, tra vittorie e sconfitte. Sabin sta per mollare.

Poi, dopo una notte insonne, comprende che deve rischiare in prima persona.

Decide di sperimentare il suo vaccino, prima su se stesso e poi su le sue figlie. Seguono mesi di trepidazione e di ansia. Il dramma interiore di un uomo è di un medico. Finalmente le tue bambine sviluppano gli albicocchi contro la poliomielite.

Il suo vaccino viene riconosciuto efficace in tutto il mondo e anche in Italia. Ma lui  rifiuta gloria e denaro e si ritira a Cincinnati. A studiare i suoi amati  microbi. 

Alla fine dell’intervista Enzo Biagi ha una sorpresa per lui.

Quando era a Palermo, con gli americani, Sabin ha conosciuto un bambino, Leonardo, dilaniato dalla polio, che si sforzava di camminare appoggiandosi ad un bastone, facendo quasi da mascotte ai soldati del generale Patton, e vivendo di espedienti. 

La porta si apre e Sabin se lo trova davanti.

Leonardo adesso è un uomo. Si appoggia ad un bastone di quercia. Ha moglie e figli a Palermo, un negozio di fianco al Teatro Massimo.

I due si abbracciano commossi. Cominciano a parlare e la scena sfuma su di loro. 

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