La croce e la penna

Domenica dopo la messa. La Parola del testo sacro mi invita ad amare Dio e il prossimo. 

Esco dalla chiesa sbandato e confuso, non riesco a trocomevare la strada, mi chiedo e cosa fare, se la mia vita abbia ancora un senso, o sia erba secca e riarsa, ripiegata nell’orgoglio di un sogno inutile. Se non impossibile, che arranca sulla mia carrozzina elettrica.

Nella paura di aver fallito, di avere anche tradito la vocazione e l’amore di Dio, il vuoto della mente mi appanna la vista.

Rischio di andare a sbattere. È una frazione di secondo.

Riprendo il controllo di me stesso e dello spazio. Non voglio andare a nascondermi a casa, magari aggrappandomi ad un’idea di fuoco fatuo lasciato su un foglio bianco. 

Immaginando il bello, nel volto di una donna, forse un antico amore, in un attimo ritrovo la via giusta.

Raggiungo abbastanza facilmente il centro del mio paese, piccola poesia di  un amore irrisolto perduto e ritrovato ad ogni metro conquistato. 

  Mi arrampico ancora su pensieri sfilacciati e sparuti, che cercano l’aria di un nuovo orizzonte, tra la preghiera e la ragione, proiettata in terra di Israele. 

Nel sole  ancora beffardamente estivo di fine autunno, alberi tristi, irsuti e stenti, non si arrendono alla solitudine di una piazza vuota. Domando tregua nell’eterna battaglia che combatto con me stesso. 

Poi incontro due amici diversissimi tra di loro e anche, in alcune cose, lontani dal mio sentire. Un professore di musica e un attore. 

Li guardo negli occhi e cominciamo a parlare.

Ci incontriamo nelle reciproche storie, nelle esperienze di vita, che diventano un percorso comune nel quale ci riconosciamo. 

Non sono ancora soddisfatto, non ho domato del tutto i miei fantasmi, ma qualcosa ho capito. 

Con l’età che avanza, con l’immobilità, divenuta  improvvisamente pesante e ingombrante, ma non insostenibile al punto di impedirmi di sognare  il nuovo, ho compreso come per me, scrivere di qualcosa  o di qualcuno, non fosse solo  un modo per affermare a me stesso, ma costituisse invece la misura dell’amore  e del racconto di ognuno.

Ciascuno è un mondo, che merita di essere osservato e accarezzato. In questo momento di guerra, in cui il fumo delle armi, offusca lo sguardo dell’altro, ti chiedi dove sia Dio.

Lo riscopri nel cuore e nelle parole di chi ti passa accanto. Allora capisci che nulla e un caso e la bellezza torna a brillare,  ombra di luce, in  nei visi, in un saluto, in un nuovo progetto in un sorriso, anche solo abbozzato

Questione di sinapsi

È inutile spiegare ad un normodotato, che il baricentro di una persona spastica, colpita o nata con una paralisi cerebrale, é inevitabilmente spostato, come sono spenti parte dei suoi neuroni e delle sue sinapsi, che riguardano il movimento, la cognizione, l’orientamento, o anche solo  l’equilibrio spaziale.

Questo comporterà una visione distorta sulla piattaforma spazio temporale, che porterà il soggetto in questione a delle pause incongrue nel compimento di movimenti e nel raggiungimento di luoghi, anche interni all’abitazione, con frequenti fermate intermedie.

La persona normodotata, o il caregiver, spesso non è in grado di decodificare questa progressione contingente e ne prova fastidio. Non di rado redarguisce la persona con disabilità o anziana, sperando che questa possa neutralizzare l’errore per una prossima volta.

Questo non avviene per il vulnus neurologico neurologico che c’è a monte e che il familiare o la persona curante, difficilmente riuscirà ad accettare.

Sta quindi alla persona disabile, qualora ne abbia le facoltà, di affrontare in silenzio le difficoltà e di placare le ansie altrui, magari opponendo un comportamento silente e operativo alle pulsioni ansiogene di chi gli sta di fronte.

Mai dire ad una persona ansiosa che lo è, mai invitarla a stare calma. L’unica cosa è assecondarla. Non è facile, ma risulta alla lunga, l’unica strategia vincente.

Perché chi vive l’handicap di riflesso è spesso oberato dal senso di impotenza e di frustrazione per non poter aiutare il proprio caro come vorrebbe e questo sovente si trasforma in rabbia incontinente, se non in nevrosi.

Siamo noi, persone con disabilità, a dover aiutare chi ci aiuta, calibrando l’istinto naturale con la ragione e con l’affetto, per spezzare il vortice di una difficile quotidianità

Israele, una voce dal fronte

Vorrei scrivere
la parola pace
tra le righe del cielo,
ma il suo manto
non è piú azzurro.
Allora cerco
scampoli d’amore,
per poterci riprovare,
incubando nel vostro rispetto, la rabbia e il dolore.
Vi guardo
sui vostri volti ritrovo l’amore.
Allora scrivo i nomi di ciascuno
nel mio cuore.
(Dedicata ad Alessandro Scuderi, chi me l’ha in parte ispirata e a tutti i caduti di questa guerra.
AM ISRAEL CHAI!)

Michele Pacciano

STORIE MIGRANTI

In evidenza


Nicola Perrone, (uncle Nick) nacque a Ginosa il 7 settembre 1913. Suo padre si chiamava Francesco, detto Ciccio Perrone. Sua madre, di Laterza, si chiamava Maria Mele. Nick era il secondo di tre figli. La più grande, Rosa, detta Sisina, era nata nel 1911. Poi c’era Adelina, la piccola di casa, venuta al mondo nel 1915, proprio nei mesi di guerra, quasi fosse un dono di speranza.
La coppia visse bene, anche se con sacrificio, gli anni di matrimonio, Ma poi Maria si ammalò e morì di un brutto male. Erano gli anni del primo dopoguerra, l’Italia faceva la fame e nel meridione si soffriva ancora di più. Francesco non sapeva come tirare su da solo i tre bambini piccoli. Il fratello di sua moglie, Pasqualino Mele, con i suoi anziani genitori, era emigrato negli Stati Uniti, come altri milioni di Italiani. L’America era il sogno di tutti per un futuro migliore. Anche Francesco si decise a fare il grande passo.
I suoi figli sarebbero cresciuti con i nonni. E lui avrebbe lavorato per tutti. Ormai l’unica cosa che contasse per lui erano i figli.
La famiglia Perrone, Francesco, Rosa di 10 anni, Nick di otto e Adelina di cinque, partirono da Napoli nel dicembre del 1921. Salirono sulla nave Taormina, come attestano i documenti dell’anagrafe dell’immigrazione italiana in America, che si puó ritrovare negli archivi di Ellis Island: http://www.ellisisland.org.
Nick aveva ancora i calzoni corti. Ricacciò le lacrime salate in gola e seguì suo padre sulla scala di imbarco. Aveva paura e forse non capiva neanche cosa significasse realmente attraversare il mare. Sulla nave c’era vento, la gente vomitava, qualcuno piangeva o pregava. In agguato era l’incubo del mal di mare e dello scorbuto. Immagino che Adelina fosse sempre attaccata alla mano del padre e Rosa cercava di fare la donna per quello che poteva e per i pochi anni che aveva.
Arrivarono a Ellis Island, il centro di smistamento dei migranti sull’isola di Manhattan, nel gennaio del 1922, la data è sempre nei documenti della fondazione per l’immigrazione.
Furono considerati idonei ad entrare negli Stati Uniti e presero il treno per Buffalo, dove li aspettavano lo zio Pasqualino e i nonni.
Ma dov’era Buffalo, alla fine del mondo?
Mi risulta che viaggiassero da soli, ma forse era andato a prenderli da New York Manhattan, proprio zio Pasqualino. Mi pare che Rosa, me lo abbia raccontato una volta.
Era inverno e faceva freddo a Buffalo. C’era tanta neve; e Nick non l’aveva mai vista, la neve.
I nonni erano molto affettuosi, Ma presto i tre ragazzi dovettero separarsi dal papà, che lavorava lontano, faceva il giardiniere a Yokers e tornava a Buffalo dopo mesi, quando andava bene veniva dopo tre settimane. Ed era una piccola festa.
I ragazzi dovettero diventare grandi sentendo la sua mancanza.
Appena arrivato a Buffalo, Nick fu mandato a scuola. Lo misero in prima elementare, Ma si accorsero subito che era un ragazzo molto dotato, intelligente, riflessivo e pacato, che non parlava mai a sproposito. Lo spostarono in terza classe. Appena entrato in aula, Nick cacciò un urlo e scappò fuori a gambe levate. Non era colpa sua, la maestra gli sorrideva. Ma lui, bambino italiano di 9 anni, non aveva mai visto una maestra nera e quel donnone dai denti bianchissimi, lo spaventava a morte.
Poi si fece coraggio e rientrò, sedendosi nei banchi.
In quegli anni Buffalo era grande e accogliente, ma anche spietata. Nick imparó la dura legge della strada: non gli piaceva fare a botte, ma se voleva sopravvivere doveva difendersi. Gli immigrati irlandesi erano appena un po’ meno poveri degli italiani e se la prendevano con loro per qualsiasi cosa.
Molti italiani vendevano i gelati col carrettino e gli irlandesi, come mi raccontavano i vecchi immigrati, mettevano lo sterco di cavallo nella macchinetta dei gelati.
Nick imparò a battersi bene, a schivare i colpi. Ma non era quasi mai lui ad iniziare, rispondeva solo alle provocazioni.
A scuola andava bene. Era diventato un giovanotto promettente e fece anche due anni di college. Poi la famiglia gli chiese di lavorare.
Arrivò il proibizionismo Nick conosceva tutti i boss di Buffalo, ma a lui non importava. Studiava, lavoravo onestamente e tirava dritto.
Nessuno gli dava noia. La famiglia Perrone aveva trovato un nuovo focolare nella chiesa, forse in una delle tante parrocchie Italiane dove i padri scalabriniani aiutavano chiunque avesse bisogno. Il Signore li aveva protetti fin dal viaggio sulla nave e non li avrebbe mai più abbandonati. Nick ne era profondamente convinto, lo vedeva nei fatti. Non era bigotto, la sua fede era intima e forte, come chi affronta una vita dura.
Quando l’America entrò nel secondo conflitto mondiale, Nick fu arruolato. Fece lo sbarco in Normandia. Toccò la spiaggia insanguinata di Omaha beach, ma non parlò mai di quando la morte lo aveva guardato negli occhi.
Ricordava un po’ di italiano, i nonni non avevano mai imparato bene l’inglese.
Lui sperava di essere destinato in Sicilia con il generale Patton, ma fu spedito in Belgio. Lì avrebbe trovato, l’unico suo grande amore, una ragazza di cui con me non fece mai il nome, come fa un vero gentiluomo.
Per me zio Nick, cugino di mia nonna, che si chiamava Rosa, come sua sorella maggiore, ha sempre rappresentato l’America che più ho amato: forte, semplice e schietta. Solida.

Nel 1957, Nick e sua sorella Rosa vennero in Italia, per il matrimonio di zia Maria, la sorella più piccola di mia nonna.
Al treno li andò a prendere mio zio, che si chiamava proprio come Nick, Nicolino Perrone. Non si conoscevano. Mio zio disse solo:«You, Nicola Perrone?»
«Yes!» – ” rispose l’altro emozionato.
«Pure io, abbracciamoci!».
Quando andai in America, nel 1977, fui operato alle gambe e mi insegnarono a camminare, zio Nick e zia Rosa furono molto vicini a me e alla mia famiglia. Vennero da Buffalo a New York e mi prestarono anche mille dollari per pagare il dottore, mentre mio padre era in Italia a lavorare e mia madre non sapeva come fare.
Ho sempre voluto bene a zio Nick, fu lui ad insegnarmi le prime parole in inglese che non ho mai più dimenticato.
Quando è morto, zia Rose è venuta in Italia. Aveva una scatola per me. «È un regalo, disse estraendo con cura un bellissimo orologio a corda, era un Omega del 1944 – per Nick era un pegno d’amore, glielo aveva regalato l’unica donna che abbia veramente amato. Dopo la guerra le fece l’atto di richiamo. Ma lei non volle venire dal Belgio. Lui non si è mai più risposato. Portava sempre quell’orologio al polso.
Credo, disse zia Rose, che Nick avrebbe voluto che lo tenessi tu».
Ora quell’orologio è nel mio cassetto, pegno di un grande affetto.
Questo era zio Nick.
Nicola Perrone, (uncle Nick) was born in Ginosa on 7 September 1913. His father was called Francesco, known as Ciccio Perrone. His mother, also from Ginosa, was called Maria Mele. Nick was the second of three children. The eldest, Rosa, known as Sisina, was born in 1911. Then there was Adelina, the little one of the house, who came into the world in 1915, right in the months of war, as if it were a gift of hope.
The couple lived their years of marriage well, albeit with sacrifice. But then Maria fell ill and died of a terrible illness. These were the post-war years, Italy was starving and in the south people were suffering even more. Francesco didn’t know how to raise his three small children on his own. His wife’s brother, Pasqualino Mele, with his elderly parents, had emigrated to the United States, like millions of other Italians. America was everyone’s dream for a better future. Francesco also decided to take the big step.
His children would grow up with their grandparents. And he would work for everyone. Now the only thing that mattered to him were his children.
The Perrone family, Francesco, 10-year-old Rosa, eight-year-old Nick and five-year-old Adelina, left Naples in December 1921. They boarded the ship Taormina, as attested by the documents from the registry of Italian immigration to America, which can be found in the Ellis Island archives: http://www.ellisisland.org.
Nick was still wearing shorts. He fought back the salty tears from his throat and followed his father up the boarding ladder. He was afraid and perhaps he didn’t even understand what crossing the sea really meant. It was windy on the ship, people were vomiting, some were crying or praying. Lurking was the nightmare of seasickness and scurvy. I imagine that Adelina was always attached to her father’s hand and Rosa tried to be a woman for what she could and for the few years she had.
They arrived at Ellis Island, the migrant processing center on the island of Manhattan, in January 1922, the date is always in the immigration foundation documents.
They were deemed eligible to enter the United States and took the train to Buffalo, where their uncle Pasqualino and grandparents were waiting for them.
But where was Buffalo, at the end of the world?
I understand that they were traveling alone, but perhaps Uncle Pasqualino himself had gone to pick them up from New York Manhattan. I think Rosa told me this once.
It was winter and cold in Buffalo. There was a lot of snow; and Nick had never seen snow.
The grandparents were very affectionate, but soon the three boys had to separate from their father, who worked far away, was a gardener in Yorkers and returned to Buffalo after months, when things went well he came after three weeks. And it was a small party.
The boys had to grow up missing him.
As soon as he arrived in Buffalo, Nick was sent to school. They put him in first grade, but they immediately realized that he was a very gifted, intelligent, thoughtful and calm boy, who never spoke out of turn. They moved him to third class. As soon as he entered the classroom, Nick let out a scream and ran out as fast as he could. It wasn’t his fault, the teacher smiled at him. But he, a 9-year-old Italian boy, had never seen a black teacher and that big woman with very white teeth scared him to death.
Then he gathered courage and went back in, sitting down on the benches.
In those years Buffalo was big and welcoming, but also ruthless. Nick learned the harsh law of the street: he didn’t like getting into fights, but if he wanted to survive he had to defend himself. The Irish immigrants were just a little less poor than the Italians and they picked on them for everything.
Many Italians sold ice cream from a cart and the Irish, as old immigrants told me, put horse dung in the ice cream machine.
Nick learned to fight well, to dodge blows. But he was almost never the one to initiate it, he only responded to provocations.
He did well at school. He had become a promising young man and even went to two years of college. Then the family asked him to work.
Prohibition came Nick knew all the bosses in Buffalo, but he didn’t care. He studied, I worked honestly and he went straight.
Nobody bothered him. The Perrone family had found a new hearth in the church, perhaps in one of the many Italian parishes where the Scalabrinian fathers helped anyone in need. The Lord had protected them since their journey on the ship and would never abandon them again. Nick was deeply convinced of this, he saw it in the facts. He was not bigoted, his faith was intimate and strong, like someone facing a hard life.
When America entered World War II, Nick was drafted. He landed in Normandy. He touched the bloody shore of Omaha beach, but he never spoke of the time death had looked him in the eyes.
He remembered some Italian, his grandparents had never learned English well.
He hoped to be sent to Sicily with General Patton, but was sent to Belgium. There he would find his one great love, a girl whose name he never mentioned to me, as a true gentleman does.
For me, Uncle Nick, my grandmother’s cousin, who was called Rosa, like his older sister, has always represented the America that I loved most: strong, simple and sincere. Solid.

STORIE MIGRANTI
Nicola Perrone, (uncle Nick) nacque a Ginosa il 7 settembre 1913. Suo padre si chiamava Francesco, detto Ciccio Perrone. Sua madre, anche lei di Ginosa, si chiamava Maria Mele. Nick era il secondo di tre figli. La più grande, Rosa, detta Sisina, era nata nel 1911. Poi c’era Adelina, la piccola di casa, venuta al mondo nel 1915, proprio nei mesi di guerra, quasi fosse un dono di speranza.
La coppia visse bene, anche se con sacrificio, gli anni di matrimonio, Ma poi Maria si ammalò e morì di un brutto male. Erano gli anni del primo dopoguerra, l’Italia faceva la fame e nel meridione si soffriva ancora di più. Francesco non sapeva come tirare su da solo i tre bambini piccoli. Il fratello di sua moglie, Pasqualino Mele, con i suoi anziani genitori, era emigrato negli Stati Uniti, come altri milioni di Italiani. L’America era il sogno di tutti per un futuro migliore. Anche Francesco si decise a fare il grande passo.
I suoi figli sarebbero cresciuti con i nonni. E lui avrebbe lavorato per tutti. Ormai l’unica cosa che contasse per lui erano i figli.
La famiglia Perrone, Francesco, Rosa di 10 anni, Nick di otto e Adelina di cinque, partirono da Napoli nel dicembre del 1921. Salirono sulla nave Taormina, come attestano i documenti dell’anagrafe dell’immigrazione italiana in America, che si puó ritrovare negli archivi di Ellis Island: http://www.ellisisland.org.
Nick aveva ancora i calzoni corti. Ricacciò le lacrime salate in gola e seguì suo padre sulla scala di imbarco. Aveva paura e forse non capiva neanche cosa significasse realmente attraversare il mare. Sulla nave c’era vento, la gente vomitava, qualcuno piangeva o pregava. In agguato era l’incubo del mal di mare e dello scorbuto. Immagino che Adelina fosse sempre attaccata alla mano del padre e Rosa cercava di fare la donna per quello che poteva e per i pochi anni che aveva.
Arrivarono a Ellis Island, il centro di smistamento dei migranti sull’isola di Manhattan, nel gennaio del 1922, la data è sempre nei documenti della fondazione per l’immigrazione.
Furono considerati idonei ad entrare negli Stati Uniti e presero il treno per Buffalo, dove li aspettavano lo zio Pasqualino e i nonni.
Ma dov’era Buffalo, alla fine del mondo?
Mi risulta che viaggiassero da soli, ma forse era andato a prenderli da New York Manhattan, proprio zio Pasqualino. Mi pare che Rosa, me lo abbia raccontato una volta.
Era inverno e faceva freddo a Buffalo. C’era tanta neve; e Nick non l’aveva mai vista, la neve.
I nonni erano molto affettuosi, Ma presto i tre ragazzi dovettero separarsi dal papà, che lavorava lontano, faceva il giardiniere a Yokers e tornava a Buffalo dopo mesi, quando andava bene veniva dopo tre settimane. Ed era una piccola festa.
I ragazzi dovettero diventare grandi sentendo la sua mancanza.
Appena arrivato a Buffalo, Nick fu mandato a scuola. Lo misero in prima elementare, Ma si accorsero subito che era un ragazzo molto dotato, intelligente, riflessivo e pacato, che non parlava mai a sproposito. Lo spostarono in terza classe. Appena entrato in aula, Nick cacciò un urlo e scappò fuori a gambe levate. Non era colpa sua, la maestra gli sorrideva. Ma lui, bambino italiano di 9 anni, non aveva mai visto una maestra nera e quel donnone dai denti bianchissimi, lo spaventava a morte.
Poi si fece coraggio e rientrò, sedendosi nei banchi.
In quegli anni Buffalo era grande e accogliente, ma anche spietata. Nick imparó la dura legge della strada: non gli piaceva fare a botte, ma se voleva sopravvivere doveva difendersi. Gli immigrati irlandesi erano appena un po’ meno poveri degli italiani e se la prendevano con loro per qualsiasi cosa.
Molti italiani vendevano i gelati col carrettino e gli irlandesi, come mi raccontavano i vecchi immigrati, mettevano lo sterco di cavallo nella macchinetta dei gelati.
Nick imparò a battersi bene, a schivare i colpi. Ma non era quasi mai lui ad iniziare, rispondeva solo alle provocazioni.
A scuola andava bene. Era diventato un giovanotto promettente e fece anche due anni di college. Poi la famiglia gli chiese di lavorare.
Arrivò il proibizionismo Nick conosceva tutti i boss di Buffalo, ma a lui non importava. Studiava, lavoravo onestamente e tirava dritto.
Nessuno gli dava noia. La famiglia Perrone aveva trovato un nuovo focolare nella chiesa, forse in una delle tante parrocchie Italiane dove i padri scalabriniani aiutavano chiunque avesse bisogno. Il Signore li aveva protetti fin dal viaggio sulla nave e non li avrebbe mai più abbandonati. Nick ne era profondamente convinto, lo vedeva nei fatti. Non era bigotto, la sua fede era intima e forte, come chi affronta una vita dura.
Quando l’America entrò nel secondo conflitto mondiale, Nick fu arruolato. Fece lo sbarco in Normandia. Toccò la spiaggia insanguinata di Omaha beach, ma non parlò mai di quando la morte lo aveva guardato negli occhi.
Ricordava un po’ di italiano, i nonni non avevano mai imparato bene l’inglese.
Lui sperava di essere destinato in Sicilia con il generale Patton, ma fu spedito in Belgio. Lì avrebbe trovato, l’unico suo grande amore, una ragazza di cui con me non fece mai il nome, come fa un vero gentiluomo.
Per me zio Nick, cugino di mia nonna, che si chiamava Rosa, come sua sorella maggiore, ha sempre rappresentato l’America che più ho amato: forte, semplice e schietta. Solida.

Nel 1957, Nick e sua sorella Rosa vennero in Italia, per il matrimonio di zia Maria, la sorella più piccola di mia nonna.
Al treno li andò a prendere mio zio, che si chiamava proprio come Nick, Nicolino Perrone. Non si conoscevano. Mio zio disse solo:«You, Nicola Perrone?»
«Yes!» – ” rispose l’altro emozionato.
«Pure io, abbracciamoci!».
Quando andai in America, nel 1977, fui operato alle gambe e mi insegnarono a camminare, zio Nick e zia Rosa furono molto vicini a me e alla mia famiglia. Vennero da Buffalo a New York e mi prestarono anche mille dollari per pagare il dottore, mentre mio padre era in Italia a lavorare e mia madre non sapeva come fare.
Ho sempre voluto bene a zio Nick, fu lui ad insegnarmi le prime parole in inglese che non ho mai più dimenticato.
Quando è morto, zia Rose è venuta in Italia. Aveva una scatola per me. «È un regalo, disse estraendo con cura un bellissimo orologio a corda, era un Omega del 1944 – per Nick era un pegno d’amore, glielo aveva regalato l’unica donna che abbia veramente amato. Dopo la guerra le fece l’atto di richiamo. Ma lei non volle venire dal Belgio. Lui non si è mai più risposato. Portava sempre quell’orologio al polso.
Credo, disse zia Rose, che Nick avrebbe voluto che lo tenessi tu».
Ora quell’orologio è nel mio cassetto, pegno di un grande affetto.
Questo era zio Nick.
Nicola Perrone, (uncle Nick) was born in Ginosa on 7 September 1913. His father was called Francesco, known as Ciccio Perrone. His mother, also from Ginosa, was called Maria Mele. Nick was the second of three children. The eldest, Rosa, known as Sisina, was born in 1911. Then there was Adelina, the little one of the house, who came into the world in 1915, right in the months of war, as if it were a gift of hope.
The couple lived their years of marriage well, albeit with sacrifice. But then Maria fell ill and died of a terrible illness. These were the post-war years, Italy was starving and in the south people were suffering even more. Francesco didn’t know how to raise his three small children on his own. His wife’s brother, Pasqualino Mele, with his elderly parents, had emigrated to the United States, like millions of other Italians. America was everyone’s dream for a better future. Francesco also decided to take the big step.
His children would grow up with their grandparents. And he would work for everyone. Now the only thing that mattered to him were his children.
The Perrone family, Francesco, 10-year-old Rosa, eight-year-old Nick and five-year-old Adelina, left Naples in December 1921. They boarded the ship Taormina, as attested by the documents from the registry of Italian immigration to America, which can be found in the Ellis Island archives: http://www.ellisisland.org.
Nick was still wearing shorts. He fought back the salty tears from his throat and followed his father up the boarding ladder. He was afraid and perhaps he didn’t even understand what crossing the sea really meant. It was windy on the ship, people were vomiting, some were crying or praying. Lurking was the nightmare of seasickness and scurvy. I imagine that Adelina was always attached to her father’s hand and Rosa tried to be a woman for what she could and for the few years she had.
They arrived at Ellis Island, the migrant processing center on the island of Manhattan, in January 1922, the date is always in the immigration foundation documents.
They were deemed eligible to enter the United States and took the train to Buffalo, where their uncle Pasqualino and grandparents were waiting for them.
But where was Buffalo, at the end of the world?
I understand that they were traveling alone, but perhaps Uncle Pasqualino himself had gone to pick them up from New York Manhattan. I think Rosa told me this once.
It was winter and cold in Buffalo. There was a lot of snow; and Nick had never seen snow.
The grandparents were very affectionate, but soon the three boys had to separate from their father, who worked far away, was a gardener in Yorkers and returned to Buffalo after months, when things went well he came after three weeks. And it was a small party.
The boys had to grow up missing him.
As soon as he arrived in Buffalo, Nick was sent to school. They put him in first grade, but they immediately realized that he was a very gifted, intelligent, thoughtful and calm boy, who never spoke out of turn. They moved him to third class. As soon as he entered the classroom, Nick let out a scream and ran out as fast as he could. It wasn’t his fault, the teacher smiled at him. But he, a 9-year-old Italian boy, had never seen a black teacher and that big woman with very white teeth scared him to death.
Then he gathered courage and went back in, sitting down on the benches.
In those years Buffalo was big and welcoming, but also ruthless. Nick learned the harsh law of the street: he didn’t like getting into fights, but if he wanted to survive he had to defend himself. The Irish immigrants were just a little less poor than the Italians and they picked on them for everything.
Many Italians sold ice cream from a cart and the Irish, as old immigrants told me, put horse dung in the ice cream machine.
Nick learned to fight well, to dodge blows. But he was almost never the one to initiate it, he only responded to provocations.
He did well at school. He had become a promising young man and even went to two years of college. Then the family asked him to work.
Prohibition came Nick knew all the bosses in Buffalo, but he didn’t care. He studied, I worked honestly and he went straight.
Nobody bothered him. The Perrone family had found a new hearth in the church, perhaps in one of the many Italian parishes where the Scalabrinian fathers helped anyone in need. The Lord had protected them since their journey on the ship and would never abandon them again. Nick was deeply convinced of this, he saw it in the facts. He was not bigoted, his faith was intimate and strong, like someone facing a hard life.
When America entered World War II, Nick was drafted. He landed in Normandy. He touched the bloody shore of Omaha beach, but he never spoke of the time death had looked him in the eyes.
He remembered some Italian, his grandparents had never learned English well.
He hoped to be sent to Sicily with General Patton, but was sent to Belgium. There he would find his one great love, a girl whose name he never mentioned to me, as a true gentleman does.
For me, Uncle Nick, my grandmother’s cousin, who was called Rosa, like his older sister, has always represented the America that I loved most: strong, simple and sincere. Solid.

In 1957, Nick and his sister Rosa came to Italy, for the wedding of Aunt Maria, my grandmother’s youngest sister.
My uncle, who was called just like Nick, Nicolino Perrone, went to pick up the train there. They didn’t know each other. My uncle only said: «You, Nicola Perrone?»
«Yes!» – ” replied the other excitedly.
«Me too, let’s hug!».
When I went to America in 1977, I had leg surgery and was taught to walk, Uncle Nick and Aunt Rosa were very close to me and my family. They came from Buffalo to New York and even lent me a thousand dollars to pay for the doctor, while my father was in Italy working and my mother didn’t know what to do.
I have always loved Uncle Nick, he was the one who taught me my first words in English which I have never forgotten.
When he died, Aunt Rose came to Italy. He had a box for me. «It’s a gift, he said, carefully taking out a beautiful string watch, it was an Omega from 1944 – for Nick it was a token of love, it was given to him by the only woman he ever truly loved. After the war he issued a recall deed for her. But she didn’t want to come from Belgium. He never remarried. He always wore that watch on his wrist.
I think, said Aunt Rose, that Nick would have wanted you to keep him.’
Now that watch is in my drawer, a token of great affection.
This was Uncle Nick.In 1957, Nick and his sister Rosa came to Italy, for the wedding of Aunt Maria, my grandmother’s youngest sister.
My uncle, who was called just like Nick, Nicolino Perrone, went to pick up the train there. They didn’t know each other. My uncle only said: «You, Nicola Perrone?»
«Yes!» – ” replied the other excitedly.
«Me too, let’s hug!».
When I went to America in 1977, I had leg surgery and was taught to walk, Uncle Nick and Aunt Rosa were very close to me and my family. They came from Buffalo to New York and even lent me a thousand dollars to pay for the doctor, while my father was in Italy working and my mother didn’t know what to do.
I have always loved Uncle Nick, he was the one who taught me my first words in English which I have never forgotten.
When he died, Aunt Rose came to Italy. He had a box for me. «It’s a gift, he said, carefully taking out a beautiful string watch, it was an Omega from 1944 – for Nick it was a token of love, it was given to him by the only woman he ever truly loved. After the war he issued a recall deed for her. But she didn’t want to come from Belgium. He never remarried. He always wore that watch on his wrist.
I think, said Aunt Rose, that Nick would have wanted you to keep him.’
Now that watch is in my drawer, a token of great affection.
This was Uncle Nick.

Ciao nonno Minguccio

Domenico Difonzo, detto Minguccio, uomo imprenditore ed amico ci ha lasciati questa notte di martedì 26 giugno, dopo aver lottato come un leone in una lunga malattia. Non si è mai arreso. Lo voglio ricordare con un intervista che mi concesse per il trimestrale della Banca di Credito Cooperativo di Marina di Ginosa qualche anno fa.

Ha cominciato a darsi da fare e a lavorare duro, fin da quando era bambino. La sua scuola è stata la strada e lo sterrato dei campi. Fin da ragazzo accompagnava le braccianti nelle varie masserie della zona offrendosi per i compiti più umili e faticosi.

Quella mattina del Maggio ’44, Domenico Difonzo era seduto come sempre dietro, sull’asse del traino, nei pressi di Lama Di Pozzo, con i piedi scalzi e i calzoni corti, le gambe forti sporgevano in fuori. Il caporale era diretto alla Masseria Pascale. Lui aveva solo 13 anni.

Era la fine della Guerra. I Tedeschi in ritirata disseminavano i campi di mine

Improvvisamente il ragazzo sbarrò gli occhi. Uno spettacolo terrificante gli si parò davanti. Nel punto in cui loro erano appena passati, uomini, cavalli e traini si trasformarono in un ammasso di carne sbrindellata, sangue, fumo e macerie.

Nove braccianti ginosini persero la vita in quella tragica esplosione.

Domenico cercò di raccontarlo alle donne. Nessuno gli credette. Lui era solo un bambino di tredici anni.

La mattina dopo, la tragica verità corse di bocca in bocca, nove giovani erano morti per colpa di quella maledetta mina. Nove vite stroncate da una guerra che i contadini non capivano, ma nella quale morivano.
Allora Domenico, che tutti chiamavano Minguccio, aveva ragione!
Lui non sapeva ancora come quell’episodio avrebbe cambiato la sua vita.
Aveva guardato la morte negli occhi, l’aveva affrontata e aveva vinto. Niente gli faceva più paura.
Forse fu in quel momento che decise di usare l’esplosivo per costruire, non più per distruggere.
Tutti avevano paura. Lui era cresciuto in fretta, tra la fame, i pochi soldi e i primi tiri di sigaretta.

A 15 anni decise che poteva guadagnare un bel po,’ facendo esplodere le cave di pietra.
Ora ha costruito un impero economico. A pochi metri da quella strage che lo segnò nel maggio del 44, sorgono i suoi capannoni dove fornisce tutti i materiali per l’edilizia e si è specializzato anche nella costruzione e commercializzazione dei paletti per issare i tendoni nei vigneti.
A 87 anni appena compiuti e festeggiati lo scorso luglio, non ha nessuna intenzione di mollare la presa.
Un delicatissimo intervento chirurgico ha rischiato di metterlo a tappeto. Ma lui non ha mollato. Si è rimesso in piedi ed è tornato in cantiere, sorreggendosi con un bastone canadese, dal quale comanda un’impresa di più di 50 dipendenti. Conosce tutti i suoi macchinari e ogni processo di produzione… le nuove macchine le chiama quasi per nome.

È sempre lui, Minguccio Difonzo, Cavaliere del lavoro, ad avere l’ultima parola.

Una vita dedicata al lavoro, alla sua Impresa. Un’esistenza, la sua, trascorsa con le maniche ben rimboccate, macinando lavoro e sogni a testa bassa, ma riuscendo sempre a guardare in alto, con l’indole speciale dei grandi.

La forza e l’energia che ci trasmette Domenico Difonzo, per tutti Minguccio, dal momento in cui inizia a raccontarsi, ci rappresenta la consacrazione di un uomo all’impegno creativo per il lavoro e per ogni opportunità della sua crescita, la devozione per la sua Impresa. Un impegno iniziato in età ancora adolescenziale, perché in tempi come quelli dei suoi quattordici anni, appena successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, non c’era proprio il tempo per l’adolescenza.

L’Italia del ’45 era un Paese in rovina, stanco e svigorito nel morale e nella speranza; ogni sforzo per poter risollevare il Paese poteva essere facile preda dello sconforto. L’incontro con Domenico Difonzo ci ha, tuttavia, restituito l’immagine straordinaria di quegli uomini di grande valore e tenacia che seppero, in quegli anni tremendi, prendere le redini non solo di un’economia annientata, di un lavoro difficile da riorganizzare, ma soprattutto di un sentimento sociale da risanare e rincuorare.

Grandi e piccoli lavoratori autonomi costituirono quella classe imprenditoriale che, nel trascorrere di un sorprendente lustro, riuscì a far letteralmente risorgere dalle macerie il Paese per poi rapidamente proiettarlo verso gli anni del suo boom economico.

<<All’inizio c’erano le cave che il Comune affittava in cambio di lavori di riparazione di strade ed infrastrutture. Così incominciò mio padre ed io lo seguii. Non c’erano mezzi per lo scavo, né autocarri per il trasporto. Tutto il lavoro si svolgeva a mano e la fatica si faceva sentire, eccome se si faceva sentire! La polvere nera era esplosivo a basso potenziale e l’operazione per piazzare le cariche poteva durare giorni>>. Domenico ci spiega i dettagli della composizione della polvere esplosiva, ci illustra e ci mima la lunga preparazione delle perforazioni e sistemazione delle cariche nella roccia, le procedure per farla saltare, la lunga combustione delle micce, con una passione che sembra non risentire degli anni… Eppure di anni ne sono passati da quando aiutava papà Francesco nell’attività di “cavamonte”, termine dell’epoca per indicare l’attività di spaccapietre nelle cave di inerti.

<<Poi i massi dovevano essere lavorati, frantumati, trasportati… Il pietrisco che se ne ricavava serviva per riprendere le costruzioni edili, mediante l’utilizzo di malte comuni. C’era tanto da ricostruire e né il lavoro né la volontà potevano mancare…>>

Non mancarono, come in tutti i periodi di crisi, neppure le opportunità. La prima giunse con un deposito di tritolo ed esplosivi bellici collocato presso il Consorzio Agrario. Era materiale pericoloso dal quale era preferibile girare alla larga, ma Domenico comprese le potenzialità di quello strumento in grado di accelerare ed aumentare considerevolmente la produzione e si offrì per sperimentarne le delicate procedure di utilizzo. La produzione, con l’utilizzo del tritolo, giunse presto a decuplicarsi con successo straordinario.

<<Mi feci avanti io per sperimentare il tritolo, il più giovane tra tutti. Ero convinto che sarebbe diventato uno strumento indispensabile>>.

Non solo gli edifici, pubblici e privati, necessitavano di interventi e di ricostruzioni. Anche le infrastrutture richiedevano lavori urgenti. Le strade della Lucania e della provincia di Taranto erano in quegli anni qua e là dissestate e versavano in un generale stato rovinoso. Spostarsi era un vero problema, perché oltre le enormi buche, le vie erano sterrate, senza asfaltatura, e con le piogge si riempivano di fango e spesso venivano interrotte da frane.

<<Potevano trovarsi buche profonde anche un metro. Acquistai i primi mezzi, il primo compressore d’aria, la prima macchina per frantumare le pietre. Poi il primo camion, la prima pala meccanica. Così le richieste di lavoro iniziarono ad aumentare su tutto il territorio. Nel ’58 l’iscrizione all’Albo delle Imprese e subito dopo fu possibile a partecipare alle prime gare d’appalto pubbliche. Le richieste di lavoro, dalla Calabria, dalla Campania e dal resto della Puglia, ma soprattutto dalla Basilicata ed in particolare la Provincia di Matera non mancavano mai, i soldi un po’ meno. Le strade venivano riparate con il pietrisco macinato e non erano ancora asfaltate. C’era ancora grande necessità di ripristini e manutenzioni stradali. Fu così che iniziai a pensare a ripristini stradali con conglomerato bituminoso. Le commesse pubbliche venivano pagate con notevoli ritardi; però si cercava sempre di compensare con le commesse private. I lavori di pavimentazione stradale impegnavano continuamente le squadre dei lavoratori dipendenti, anche con l’occupazione temporanea di personale locale, e l’azienda iniziava ad espandersi e potenziarsi con altri mezzi di sollevamento e trasporto. Il materiale (conglomerato bituminoso) veniva acquistato, ma presto i produttori iniziarono ad alzare i prezzi non appena l’aumento della nostra attività lavorativa gli sembrò evidente. Fu così che, con pur con enormi sacrifici…>>

Sono già gli anni settanta. Dopo aver potenziato il suo parco mezzi di scavo, sollevamento e trasporto, Domenico si lancia così nell’acquisto di un impianto per conglomerati bituminosi, uno tra i più all’avanguardia. Sono anni di investimenti e conseguenti difficoltà, di pugni e denti serrati, dove tutto sembra doversi rimettere in gioco per non dover sottostare ad alcuna subordinazione. L’impianto mostra notevoli problemi di sistemazione, calibratura e programmazione, sembrava tutto in salita.

<<Uno ad uno, i problemi furono risolti e riuscimmo così, con grandi sforzi e sacrifici ad essere finalmente autosufficienti producendo in proprio tutto il materiale per la sistemazione dei fondi stradali>>.

Nel 1974, Domenico Difonzo fonda la I.C.B. srl. Inizia così, su un suolo aziendale di pochi metri il continuo ampliamento di quello che inizialmente (ed anche oggi, per abitudine) viene chiamato “cantiere” ma che in realtà è un vero e proprio stabilimento produttivo organizzato che oggi misura un’area di circa 80.000 mq. Quindi, sempre fra difficoltà e con enorme sacrificio, nel 1982 amplia le proprie attività con la realizzazione di un impianto per la produzione di calcestruzzo e con l’acquisto di alcune autobetoniere.

La sua lungimiranza e la grinta naturale del carattere lo portano, nel 1987, ad avviare la produzione di manufatti in cemento normali (tubi, pozzetti, blocchi ecc) e, nel 1990, ad interessarsi alla tecnologia della precompressione. Inizia quindi la costruzione di un primo impianto per la produzione di manufatti in cemento armato precompresso (lastre, travetti per solai, paletti ecc..) e, visti i risultati lusinghieri, nel 1997, di un secondo impianto. La tenacia e anni di lavoro hanno creato, all’interno della I.C.B. srl, attività diversificate fra di loro che oggi consentono alla I.C.B. srl, ed ai suoi  dipendenti, di reggere il presente ed affrontare il futuro con relativa tranquillità. Domenico è tutt’oggi amministratore unico della I.C.B. srl con la stessa passione e con lo stesso amore per il lavoro che lo hanno sempre contraddistinto.

L’11 Dicembre 2014 , Domenico è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito dell’Ordine della Repubblica italiana.

Oggi la I.C.B. s.r.l. testimonia da oltre quarant’anni l’impegno imprenditoriale di Domenico Difonzo nel campo dei conglomerati bituminosi e dei lavori stradali eseguendo forniture e lavori sia per privati che per enti pubblici, e continua, ininterrotta, la sua attività di estrazione e lavorazione di materiali inerti provenienti dalle proprie cave. Seleziona e certifica i materiali destinati alla produzione dei propri calcestruzzi. Ma non è tutto. Sempre impegnata nella ricerca di continue nuove ed innovative soluzioni per indirizzare l’impresa verso attività di maggior interesse, la società ha da tempo intrapreso la realizzazione di una pavimentazione ecologica “Biostrasse”, rappresentando il primo caso in Puglia e il secondo in tutto il Sud.

Domenico si alza, si appoggia al bastone, eleva lo sguardo in alto, ci saluta con gli occhi e tira dritto. Le ultime sue parole, prima di congedarci da lui, sono state per i suoi operai, per come l’azienda abbia, nonostante i tempi e le crisi, garantito il loro lavoro di anno in anno. I suoi occhi penetranti sembrano brillare. Lo lasciamo con la chiara sensazione di salutare un vero cavallo di razza. Semplice, essenziale, schietto e determinato, ci è sembrato consapevole della strada percorsa ma i suoi occhi luminosi rendono manifesto il desiderio di voler inseguire ancora il futuro, di non arrendersi mai, di avere ancora in serbo molte sorprese. Tutto un mondo da costruire. 

Ciao nonno Minguccio, sono sicuro che tutto quello che hai seminato rimarrà nei cuori dei tuoi nipoti e di tutti coloro che ti hanno incontrato

Il tir sfonda il guardrail e precipita nel viadotto: un morto a Matera


MATERA – Un uomo di 49 anni, calabrese, è morto stamani, in un incidente stradale avvenuto, per cause in fase di accertamento, intorno alle ore 5.15, nei pressi della diga di San Giuliano, tra Miglionico e Matera
L’uomo era alla guida di un autoarticolato che, dopo aver sfondato il guardrail, è precipitato da un viadotto. Sul posto sono intervenuti 118, Carabinieri, Polizia stradale e Vigili del fuoco.

I volti di Ginosa, Vittorio Brunone, “Il barbiere”

Per tutti i ginosini, a qualunque latitudine e in qualunque pezzo di mondo si trovassero, lui, Vittorio Brunone era “Il Barbiere!” senza bisogno di ulteriori precisazioni o aggettivi.

Nato il 12 febbraio 1921, aveva cominciato a familiarizzare con i ferri del mestiere, sotto la guida attenta di suo padre, Vincenzo Brunone, fin dalla tenerissima età.

Il padre non gli faceva sconti. Il primo gradino per un apprendista barbiere, come mi raccontava nel corso di lunghe chiacchierate durante la mia infanzia e la mia adolescenza, è imparare a preparare la schiuma da barba, per poi insaponare dettagliatamente ogni cliente, seguendo alla perfezione le curve del viso di ciascuno.

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Il mio Silenzio

Il mio silenzio

un urlo nella notte buia,

il mare in tempesta compresso nell’anima.

Il mio silenzio

volere è potere…è solo volere,

bicchieri riempiti nemmeno a metà.

Il mio silenzio

sogni rinchiusi in cassetti invecchiati dal tempo

…e non si aprono più.

Il mio silenzio

uno sguardo al di là dello specchio

per scoprire se la tua ombra…

è ancora con te quando luce non c’è.

Il mio silenzio

un vaso di Pandora nascosto nei meandri della mente,

un’altra sigaretta il fumo vola via e…

scusa l’allegria.

Miguelito Mc Carp

08/agosto/2021